
C’era una volta Tarantasio, il drago padano: e l’orrendo rettile c’era davvero, come pretendono le immagini e le costole conservate nelle chiese. L’esistenza della malvagia bestia a sei zampe che si annidava negli acquitrini attorno al Po risale ai tempi dei cavalieri e delle leggende: le stesse secondo le quali appartengono al Tarantasio le enormi e antiche ossa che da tempo immemore pendono sotto le volte di alcuni edifici sacri situati ai margini della zona infestata dal drago.
Tarantasio, si narra, viveva nel lago Gerundo. Era l’estensione paludosa che, fino alle bonifiche medievali, si trovava fra le alture lombarde del Bergamasco ed il Po e che si fondeva con il fiume all’altezza di Cremona. Il drago incuteva terrore e causava lutti. Mangiava i bambini e diffondeva malattie con il suo alito fetido. Fu ucciso – e qui le versioni divergono – forse da Uberto Visconti, capostipite dei signori di Milano, o forse da un santo: a seconda delle narrazioni, San Cristoforo, San Giorgio o San Colombano. Fatto sta che un gesto coraggioso ed eroico liberò la gente della sua nefanda presenza. Le leggende concordano nel dire che varie costole del Tarantasio sono conservate ad imperitura memoria di quell’atto glorioso. La scienza concorda assai meno: almeno un osso si è rivelato di tutt’altra pasta.
Ma intanto, ecco le costole ricurve del Tarantasio, la cui lunghezza si avvicina ai due metri: una misura che ben si addice a un drago. Clic sulle immagini qui sotto per vederle ingrandite. La prima è a San Bassiano a Pizzighettone (Cremona), appesa sotto la volta della sacrestia. Balena fossile? Non risultano studi o datazioni. Le altre due due sono in provincia di Bergamo, rispettivamente nella chiesa di San Giorgio in Lemine ad Almenno San Salvatore – si tratta proprio del resto fossile di una balena – e nel santuario della Natività della Vergine di Sombreno. Quest’ultima reca anche una sorta di “firma”, visibile nella quarta foto: la storia è intrigante come e più di quella del drago.
I presunti resti del Tarantasio conservati a Sombreno sono stati studiati e datati col metodo del Carbonio 14 in occasione dei restauri del santuario, avvenuti nel 2018. Altro che un drago delle leggende medievali, altro che un preistorico osso di mammuth come si pensava all’inizio del Novecento. Si tratta dell’osso di una balena vissuta nel XV-XVI secolo. Ad un’estremità reca le lettere maiuscole AM, inframmezzate da una croce. Il particolare fa pensare ad un ex voto: un gesto di ringraziamento per uno scampato pericolo.
Di qui in poi, cominciano le congetture. Un viaggio via mare, un incontro con una balena aggressiva come il Moby Dick di Melville, anche se quest’ultimo era un capodoglio? Forse. E forse l’AM che si sentì in dovere di esprimere riconoscenza per la vita salvata era Antoni Moroni, un pittore che più o meno in quel periodo lavorò nel santuario. La sua, era una famiglia dedita al commercio marittimo. Il resto, è avvolto nel mistero: come si conviene ai resti che la tradizione attribuisce a un drago.