
Cosa c’è nell’acqua del Po? Quanto nucleare scorre in questo fiume? Ce lo chiedemmo tanti anni fa, quando fondammo questo giornale, e continuiamo a chiedercelo oggi condizionati come siamo da un’emergenza sanitaria senza precedenti che ci obbliga a considerare quanto sia tuttora precaria la situazione ambientale di tutto il Bacino del Po.
Come vogliamo superare questa pandemia, così siamo risoluti ad affrontare i problemi reali del nostro territorio. Rivendichiamo il nostro diritto alla salute e il desiderio di vivere in una Valle Padana bella e finalmente amica.
E, dato che in questi giorni di quarantena ne abbiamo tutto il tempo, può essere utile approfondire quanto la minaccia delle scorie radioattive sia tuttora reale lungo il corso del Grande Fiume.
Due centrali nucleari chiuse ma ancora contenenti materiale radioattivo a Trino Vercellese e a Caorso e addirittura un comprensorio nucleare a Saluggia, proprio all’imbocco della valle del Po, che potrebbe innescare una vera e propria catastrofe ambientale.

La centrale di Trino Vercellese (Vercelli)
L’impianto portava il nome del padre della fisica nucleare Enrico Fermi ed era nato da finanziamenti in buona parte stanziati dal settore privato. Gli attori, in questo caso, erano la società elettrica settentrionale Edison Volta e la americana Import-Export Bank, oltre alle partecipate pubbliche Finelettrica, Imi, Sip, Terni e la veneta Sade.
Questi si riunirono già nel 1955 dando vita ad una società per lo sviluppo dell’energia elettronucleare, la S.E.L.N.I. (Società Elettro Nucleare Italiana), che l’anno successivo si accordò con l’americana Westinghouse per la fornitura di un reattore ancora più avanzato rispetto a quelli di Sessa Aurunca e Latina.
Si trattava di un impianto da ben 270 Mw, ad uranio moderatamente arricchito del tipo ad acqua pressurizzata (PWR o Pressurized light Water-cooled Reactor). L’inizio dei lavori di costruzione della terza centrale nucleare italiana subì un notevole ritardo a causa della difficoltà nel reperimento della zona nella quale avrebbe dovuto essere realizzata.
Inizialmente i tecnici avevano scelto un’area della Vallegrande, sulle alture del levante ligure tra Riva Trigoso e Moneglia, ma per la ribellione degli abitanti della zona furono costretti a desistere. La scelta cadde successivamente su Trino, piccolo centro della piana vercellese, sia per la adesione delle autorità locali al progetto sia per l’ampia disponibilità d’acqua resa possibile dalla vicinanza del corso del fiume Po.
Il grande reattore di Trino, costruito negli Stati Uniti, era stato trasportato via nave fino a Porto Marghera. Si trattava di un gigantesco involucro d’acciaio del peso di 250 tonnellate arrivato nel 1962 nel porto veneto da dove era partito per uno spettacolare viaggio lungo il Po. Il trasporto durò 225 giorni fino all’arrivo nei pressi di Valenza Po. Da qui fu trasportato su un affusto a 125 ruote che arrivò a Trino il 15 giugno 1963.
Soltanto una settimana più tardi, alla presenza del ministro dell’Industria Giuseppe Medici, il reattore entrò in fase critica. Il costo della centrale ultimata aveva raggiunto i 45 miliardi di lire, per circa metà proveniente dagli investitori americani. L’impianto fu collegato alla rete elettrica ed entrò in esercizio commerciale il 1 gennaio 1965, per passare un mese più tardi alla gestione Enel.
La centrale piemontese fu la prima in Italia ad essere alimentata da combustibile di produzione nazionale. A fornire l’uranio arricchito fu una nuova società, la Coren (Combustibili per Reattori Nucleari) costituita nel 1968 da una joint venture tra Fiat e Westinghouse con sede a Saluggia (Vercelli).
La centrale di Trino rimase in funzione per tutti gli anni ’70 e ’80, completando tre cicli di combustibile e relative fermate periodiche per revisione, aggiornamenti e ripristino. La spinta al programma nucleare tra gli anni ’70 e il decennio successivo previde addirittura un raddoppio dell’impianto (la cosiddetta centrale Trino 2) che avrebbe dovuto sorgere in frazione Leri Cavour, a pochi chilometri da Trino. La commessa fu assegnata da Enel ad Ansaldo ma l’incidente di Chernobyl bloccò il progetto a lavori iniziati. L’impianto fu così convertito in termoelettrico e portò alla nascita della centrale Galileo Ferraris in esercizio fino al 2009 e chiusa definitivamente nel 2013.
La centrale Enrico Fermi seguì il medesimo destino degli altri impianti nucleari italiani dopo il referendum del 1987. Al decimo ciclo di combustibile appena caricato, la centrale piemontese fu l’ultimo impianto elettronucleare a chiudere definitivamente a metà del 1990, dopo essere stato arrestato nel marzo del 1987.
Tra il 1967 e il 1970 la centrale di Trino fu fermata, ufficialmente per manutenzione. In realtà, secondo un’inchiesta del settimanale “Epoca” pubblicata nel 1977, all’interno della cupola si sarebbe verificato un incidente di rilevante gravità. Uno schermo termico in acciaio del peso di diverse tonnellate era piombato nella vasca del reattore, un luogo altamente contaminato dalla radioattività. L’Enel, che lo presentò come un semplice guasto e liquidò la tesi dell’incidente, negando ogni sospetto sulla fuoriuscita di materiali radioattivi dalla zona protetta.

La centrale di Caorso (Piacenza)
L’impianto elettronucleare emiliano fu il primo ad essere commissionato direttamente dall’Enel alla fine degli anni sessanta. I primi lavori in località Zerbino a poca distanza dal centro di Caorso sulle rive del fiume Po, iniziarono a partire dal gennaio 1970.
Le commesse per la realizzazione del più avanzato impianto nucleare furono assegnate dall’ente nazionale elettrico all’Ansaldo Nucleare di Genova, alla Asgen (colosso dell’elettromeccanica sempre del gruppo Ansaldo) e alla Breda Termomeccanica di Sesto san Giovanni (Milano). La commessa per il reattore andò come nel caso della centrale del Garigliano alla americana General Electric che iniziò la produzione negli stabilimenti di San José in California. Si trattava di un impianto tecnologicamente simile a quello di Trino, vale a dire ad uranio arricchito del tipo BWR (Boiling Water Reactor).
La potenza complessiva era di gran lunga maggiore di quella delle altre centrali italiane del decennio precedente, con ben 860 Mw. Il vessel del reattore, ossia il guscio in acciaio, aveva un diametro di 5,5 metri ed era lungo 22 metri per un peso complessivo di oltre 600 tonnellate. La costruzione della centrale, i cui termini furono inizialmente fissati per il 1975, subì pesanti ritardi a causa di diversi fattori. Tra questi, oltre alle proteste degli abitanti della zona che temevano gli effetti di una presunta contaminazione nucleare all’alba del movimento ecologista, un incidente ad una centrale simile a quella di Caorso contribuì a rallentare ulteriormente il progresso dei lavori.
Il 28 marzo 1979 nella centrale di Three Miles Island in Pennsylvania si verificò la parziale fusione di un reattore praticamente identico a quello di Caorso, con conseguente fuoriuscita di liquido altamente radioattivo. L’incidente, il più grave sino ad allora nel campo del nucleare commerciale, segnò una cesura nell’ulteriore sviluppo di centrali dotate di impianti di quel tipo, oltre a generare un’ondata di protesta anti-nucleare destinata a durare nel tempo.
Anche per la centrale in costruzione sulle rive del Po l’incidente americano fu determinante. Il reattore General Electric e i sistemi di controllo furono sottoposti a lunghi controlli e verifiche tecniche supplementari, che inclusero un trasferimento a Tree Miles del personale italiano per studiare le dinamiche dell’incidente del 1979. Durante il lungo periodo di verifica, gli effetti della crisi petrolifera che colpì in modo sensibile anche l’Italia generarono una nuova spinta alla ricerca dell’indipendenza energetica che comprendeva anche lo sviluppo di nuove centrali elettronucleari.
Il Piano Energetico Nazionale del dicembre 1975 stabiliva le località indicate per la costruzione di nuovi impianti: al Sud nei pressi di Termoli e in Puglia a San Pietro Vernotico (Brindisi), nel settentrione a Viadana (Mantova) e nel pavese tra Sartirana di Lomellina e Monticelli. Per quanto riguardava l’Italia centrale fu deliberata la costruzione di una centrale da ben 2000 Mw a Montalto di Castro (Viterbo) che fu iniziata nel 1982 ma mai terminata e riconvertita dopo il 1990 in centrale termoelettrica.
La centrale di Caorso, dopo un periodo di prove caratterizzate da alcune fermate forzate dell’impianto, entrò in esercizio alla metà del 1982. Il prolungamento di anni delle attività di verifica e collaudo fecero lievitare il costo a 468 miliardi di lire, dato che si aggiunse alle già altissime polemiche sulla sicurezza del nucleare italiano. La vita operativa della centrale padana fu effimera. Dopo neppure cinque anni di attività l’incidente di Chernobyl segnò anche il destino di Caorso, il cui nucleo fu spento per manutenzione nell’ottobre 1986 e fermato definitivamente alcuni mesi più tardi nel febbraio 1987, quando quattordicimila fusti contenenti materiale radioattivo attendevano lo smaltimento.

Il comprensorio nucleare di Saluggia
Quello che vedete è Il comprensorio nucleare di Saluggia e si trova in provincia di Vercelli sulla strada provinciale Saluggia-Crescentino. La costruzione dell’impianto Eurex è iniziata nel 1965. L’impianto è entrato in funzione nel 1970.
È delimitato ad Est dal canale Farini, a sud dal canale Cavour, ad ovest dalla Dora Baltea e a nord da proprietà private. E’ suddiviso in due aree separate: nella prima è insediato l’impianto Eurex-SO.G.I.N. all’interno del Centro ricerche dell’ENEA, nella seconda sono insediati il Complesso Sorin e il Deposito Avogadro.
Eurex-SO.G.I.N. è un impianto per il ritrattamento di elementi di combustibile irraggiato ad alto arricchimento in Uranio 235 (U-235) di tipo M.T.R. (Material Testing Reactor). Attualmente non è più in esercizio ma nel corso della sua attività ha prodotto un grosso quantitativo di rifiuti radioattivi sia solidi che liquidi attualmente stoccati all’interno dell’area.
Il Deposito Avogadro è un deposito per elementi di combustibile nucleare irraggiato che trova sede nella piscina, riadattata allo scopo, del reattore di ricerca AVOGADRO-RS1 la cui attività è cessata nel 1971. In esso sono attualmente contenuti 164 elementi di combustibile nucleare irraggiato dei quali 101 provenienti dalla centrale nucleare di Trino (VC) e 63 dalla centrale nucleare del Garigliano, situata nel Comune di Sessa Aurunca in provincia di Caserta.
Durante l’alluvione del 2000 che causò l’inondazione del Canale Farini e della Dora Baltea, i siti nucleari furono allagati. Il premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia, all’epoca presidente dell’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea) parlò di «catastrofe planetaria sfiorata».
Saluggia si trova praticamente all’imbocco del Bacino del Po e, molto più di Trino Vercellese e Caorso, rappresenta l’incubo del nucleare di cui prima o poi dovremo liberarci.
Le schede:
Per la centrale di Trino Vercellese e la centrale di Caorso
Le centrali nucleari italiane. Panorama, di Edoardo Frittoli.
Per il comprensorio nucleare di Saluggia
GAF, Sei mesi in viaggio nel bacino del Po, di Andrea Dal Cero e Pasquale Spinelli