
E’ mattina nella Sacca di Goro, le acque retrocedono, carcasse sventrate restano sulla rena, “armature” bluastre cinte di spine, sfondate dalle beccate, con i lunghi chelipedi bianco-blu strisciati sulla sabbia, mentre la marea continua a ritirarsi. Una tanatocenosi, una “natura morta”, specchio della vita sommersa nelle acque della laguna, che aggiunge un nuovo colore alla già variopinta tavolozza del Delta: il “blu Atlantico” degli esoscheletri dei grossi granchi reali.
Il granchio blu, Callinectes sapidus (Rathbun, 1896), comunemente chiamato anche granchio reale, scatenando non poca confusione verbale con alte specie, è una forma autoctona delle coste americane che si affacciano sull’Atlantico, diffusa dall’estremo nord degli Stati Uniti all’Argentina.
Trapiantato sulle coste atlantiche europee e quindi nel Mediterraneo in modo accidentale, verosimilmente con le acque di zavorra delle grandi navi commerciali, le prime segnalazioni risalgono al 1949 nell’alto Adriatico (Mancinelli et al. 2017), oggi compare nella lista delle 100 IAS (Invasive Alien Species) molto dannose del Mediterraneo (Streftaris and Zenetos 2006). Nella Sacca di Goro, la prima identificazione di un individuo risale a tredici anni fa (Turolla 2007) e già in una prima pubblicazione sull’argomento (Chiara Manfrin et al. 2015) si mettevano in guardia imprenditori e ricercatori affinché vigilassero sull’alimentazione della specie e sul suo possibile impatto negativo sull’economia di una laguna costruita su vongole altrettanto esotiche, Ruditapes philippinarum (Adams & Reeve 1850).
Come di consueto, si tratta di una specie spartana, estremamente resistente, eurialina e euriterma, onnivora e predatrice opportunista, in sintesi estremamente flessibile e quindi competitiva, che sta colonizzando le coste della penisola, con segnalazioni che si rincorrono lungo lo stivale, prevalentemente nel versante Adriatico.
Difficile valutare l’impatto su grande scala di un crostaceo che si nutre di quanto è semplicemente accessibile, comportando alterazioni a tutti i livelli e risalendo anche le foci. Complice la grande velocità con cui compie il ciclo biologico, il rapido accrescimento, le dimensioni imponenti che raggiunge in età adulta (il carapace raggiunge la quindicina di centimetri di lunghezza e supera i venti in larghezza), la voracità, la notevole aggressività, la velocità del nuoto (grazie alle appendici posteriori appiattite), il granchio blu sembra affermarsi rapidamente, incidendo sugli gli equilibri delle biocenosi delle nostre acque. Una volta aperto il “Vaso di Pandora”, indietro non si torna e la nuova specie non si eradica.
In questo mondo confuso, con sempre meno barriere geografiche e ancora tante barriere culturali, la forte richiesta commerciale statunitense del crostaceo, notoriamente apprezzato per le sue carni, portano ad aprire le porte all’importazione dai paesi neo-colonizzati, dove, nel frattempo, si assiste all’impatto sul pescato tradizionale locale.
Alle maglie di un rete trofica alterata fanno da contraltare quella di rete elettrosaldata a prova di chele delle nasse dei pescatori della Laguna Veneta e del Delta, appositamente usate per catturare questa nuova specie. Per ora si tratta di pesca sportiva. Con questi stessi strumenti si stanno però valutando nuovi possibili scenari. Un esempio è il progetto FEAMP “Granchio Blu” attualmente in corso a Policoro, in Basilicata, uno tra i primi incentrati sul monitoraggio, contenimento e gestione di C. sapidus con approccio integrato. Da un lato, si assiste alla raccolta di informazioni sulla distribuzione del granchio blu, sulla sua biologia e sugli impatti nelle acque interne, con dati completamente nuovi e dall’altro allo studio di fattibilità di un sistema di economia circolare in grado di autosostenersi.
In un prossimo futuro si avrà un successo nel campo della pesca commerciale? Filiera corta? Esportazione? Ce ne parla il Dottor Stefano Sacchetti della Società Cooperativa HYDROSYNERGY, partner scientifico del progetto.
“La risposta alla domanda è l’obiettivo del nostro progetto e di conseguenza ad oggi non posso rispondere. Il progetto è infatti finalizzato a capire se ci possono essere le condizioni per lo sviluppo in loco di una filiera basata sul granchio blu.
Un punto a favore è che in America è diffuso (la carne del granchio blu lì è apprezzatissima, rientra in ricette tradizionali ed è pescato talmente tanto che gli stock sono in drastico calo e sono necessarie misure di tutela), però abbiamo già visto che nel caso del gambero rosso (P. clarkii), sebbene la specie sia ampiamente apprezzata in America, qui non ha mai preso piede. Vero è che in Italia le specie di mare sono mediamente “meglio viste” di quelle dulciacquicole e forse far abituare la gente a mangiare specie di mare è più facile che convincerla a farlo con quelle di fiume.
Bisogna inoltre tenere in considerazione che lo sfruttamento da parte dell’uomo degli alloctoni potrebbe non essere una soluzione al problema e che i piani per la gestione delle specie invasive vanno pianificati ed esaminati molto attentamente (Nuñez et al. 2012 – Invasive Species: To eat or not to eat, that is the question).”
Intanto è interessante fare un passaggio fra i pescatori delle nostre sacche, che sanno fare buon viso a cattivo gioco e vedere cosa arriva ai mercati. Dall’Istituto Delta di Ecologia Applicata la notizia che solo nel 2018, un quantitativo di 2300 kg di C. sapidus era transitato per il Mercato Ittico di Goro (Turolla biologo Istituto Delta di Ferrara per Telestense Ferrara, 23 ago 2019). Qualcosa sta cambiando, forse anche sulle nostre tavole.