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Irrigazione, mais e acqua del Po come bene comune

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Anche in quest’anno di siccità straordinaria il Po ha donato enormi quantità di acqua all’agricoltura, riducendosi al fantasma di se stesso. Un fiume dovrebbe essere considerato un bene comune, e così pure la sua buona salute. Eppure gran parte dell’acqua del Po, insieme a quella degli affluenti, è finita nel mais.

Il mais è la coltura che ha più bisogno d’acqua ed è onnipresente in Pianura Padana, dal momento che consente di guadagnare meglio: salvo ovviamente siccità come quella di quest’anno, grandinate e simili. Finisce nella pancia delle mucche insieme all’acqua del Po che esso “incorpora”. E’ infatti destinato ad uso zootecnico: ben poco diventa polenta.

Nessuno sa quanta acqua venga succhiata via dal Po per permettere l’irrigazione di cui il mais è il principale beneficiario. Tuttavia secondo dati 2005 – gli unici disponibili – se i diritti di prelievo irriguo dal Po fossero esercitati per intero, essi in estate richiederebbero una quantità di acqua superiore a quella che scorre nel fiume in tempi normali: e figuriamoci durante una siccità straordinaria.  Nel luglio scorso, il Po era veramente esangue e riceveva ben poca acqua dagli affluenti che ancora ne conservavano. Come disse l’Autorità di Bacino, le loro portate erano “per la maggior parte deviate per finalità irrigue”.

Però è praticamente impossibile revocare o ridurre i diritti di prelievo irriguo, che rimangono validi per molti decenni. Inoltre il mercato, se non si introducono correttivi, chiede e “premia” il mais zootecnico della Pianura Padana. L’elemento si aggiunge a quelli, ampiamente noti, che rendono insostenibile la zootecnia intensiva.

L’assetato mais consente ricavi molto più alti rispetto al grano, che non richiede irrigazione e che è anch’esso diffuso in Pianura Padana. Snocciola le cifre l’agronomo Federico Fagan. Si riferiscono tuttavia ad annate normali. Questa è stata eccezionalmente nera “e con il mais si è lavorato in perdita”. La siccità ha infatti ridotto le rese “del 15-20% o anche più”. Inoltre tutti i costi sono aumentati mentre i prezzi dei prodotti agricoli non sono cresciuti nello stesso modo.

Comunque in un anno ordinario il mais zootecnico assicura un guadagno, detratte tutte le spese, “di circa 500 euro per ettaro, e anche di 1500 se è di altissima qualità. Con il grano siamo sui 250-350 euro puliti per ettaro. Al massimo 500 euro se si tratta di grano molto pregiato”.

Il mais richiede irrigazioni pari alla distribuzione sul campo, nel corso di un’annata normale, “di circa 12 centimetri d’acqua”, come riassume Fagan. Può sembrare poco, ma significa 1.200.000 litri di acqua per ettaro, cioè 1.200 metri cubi. Un volume grossomodo pari a quello di quattro alloggi di 100 metri quadrati l’uno: due villette bifamiliari. E quanti ettari di mais ci sono in Pianura Padana…

Finché l’accento rimane sulle richieste del mercato, e non sul fiume come bene comune, si tratta di una situazione per la quale non esistono correttivi, se non quelli – parziali – che consentono di risparmiare acqua. “Selezionare varietà di mais più resistenti alla siccità – elenca Fagan – praticare il cosiddetto minimum tillage, con arature, concimazioni ed irrigazioni limitate a 15-20 centimetri di profondità contro i soliti 30-35 centimetri. Irrigare le singole piante una per una, e non l’intero campo, grazie ai tubi di diffusione dell’acqua”. Che costano: ed installarli e poi raccoglierli è una gran fatica.