Home Acqua e Territorio Il caso del pesce siluro: pesca, commercio, legalità, biodiversità

Il caso del pesce siluro: pesca, commercio, legalità, biodiversità

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di Francesco Nigro, biologo del comitato scientifico dei GAF

Si parla spesso del siluro, ma non si approfondisce mai la questione nelle sue varie sfaccettature.

In fondo un pesce gatto che può superare i due metri merita sicuramente qualche parola: tanto per cominciare siamo sicuri di incontrarlo solo sul fondo di qualche ansa limacciosa? E siamo sicuri  riguardi solo il Po?

Recentemente sono stato al Mercato delle Erbe di Bologna ed eccolo lì, anzi eccole: casse di pesce d’acqua dolce con siluri interi, a tranci e carpe in bella vista.

“Chi li compra?” E’ la prima di una breve serie di domande: gli extracomunitari ne fanno notevole richiesta, a quanto pare.

“Da dove vengono?” Questa domanda non è ben accolta e una serie di risposte arrangiate che lasciano aperte mille possibilità diverse chiudono una scomoda conversazione.

Ma non è una novità. Il pesce d’acqua dolce di origine più o meno nota finisce per essere piazzato sui banchi del Mercato delle Erbe a Bologna, per esempio, ad un prezzo che varia tra 1 e 2 euro al chilo per essere poi rivenduto fra i 3 e i 5  euro al kg.

I siluri piccoli vengono sovente valutati maggiormente per le loro carni migliori: una vera e propria manna per il pescatore perchè essendo più sociali, facilmente catturabili e gestibili, arrivano spesso vivi in grandi quantità sui banchi. Cifre nettamente più alte interessano le carni di lucioperca, molto amato a livello europeo, ma tanto diffuso nelle nostre acque, quanto poco conosciuto.

Non tutto il pescato viene esportato, come sembrava un tempo quando nacque il “caso siluro”. Anzi è ormai noto che la richiesta al Mercato di Milano, il più vasto e importante spazio per grossisti del settore ittico del nord  Italia, è tale da determinarne l’importazione dai paesi dell’est.

In risposta a questa richiesta crescente alcune provincie (il caso delle province di Como, Lecco e Sondrio su progetto dell’Assessorato all’agricoltura della Regione Lombardia e della Sogemi, Società dei Mercati Generali di Milano) e realtà particolari che gestiscono bacini e valli hanno definito azioni produttive  e destinato il pescato non autoctono, prelevato anche per fini di gestione biologica degli ecosistemi idrici, come risorsa ittica a fini commerciali.

La presenza di una risorsa spesso determina lo svilupparsi di fenomeni fuori dalla legalità, ma si tratta davvero solo di un fenomeno del Po e in generale dei grandi fiumi e laghi?

Le mie vecchie esperienze di tecnico impegnato in rilevamenti con elettropesca mi hanno sempre fatto sorridere di fronte all’idea di utilizzo incisivo del tanto incriminato storditore in Po per la pesca di un pesce di fondo come il siluro.

Lo storditore elettrico funziona, ma non fa miracoli e scordatevi distese di pesci che vengono a galla una volta accesa la corrente. Il suo raggio d’azione è fortemente limitato: un normale storditore spallabile a batteria è massimamente efficace nel raggio di 2 metri dalla picca (l’anodo). Nonostante la ridotta portata, questo strumento diventa invece maggiormente efficace in situazioni intricate ricche di nascondigli e potenziali tane sotto costa e in acque basse, tipicamente in zone ricche di tronchi caduti o a canneto dove reti e lamare diventano ingestibili o eccessivamente impegnative, mentre una gestione corretta di scariche di corrente continua e a impulsi può dare buoni risultati.

E’ il caso del Fiume Reno, dell’immissione di Idice e Santerno, di molti altri piccoli collettori e in particolare dell’area ravennate del Parco del Delta del Po.

Interessato all’entità del fenomeno della pesca di frodo e alla sua risonanza nel bacino del Reno ho avuto modo di confrontarmi con Franco Presti e Francesco Barbieri, guardie ecologiche impegnate da anni nel servizio vigilanza ittica e in contatto con diverse altre realtà di controllo sul territorio.

Questa la loro testimonianza: “Le aree pattugliate sono: fiumi Reno, Savena, Idice con frequenza giornaliera cosi come i canali di bonifica a sud della via Emilia. Il numero dei canali dove si possono trovare dei pescatori è innumerevole, controllati  dalle guardie volontarie di associazioni come  ARCI, FIPSAS e GEV. Come predetto si effettua vigilanza giornaliera, ma il territorio troppo vasto fa sì che non si  riesca a controllare a tappeto tutti i pescatori. La Forestale interviene raramente, più frequentemente la Polizia Provinciale. Gli stranieri sono prevalentemente Romeni, Moldavi, Bulgari, mediamente sono in regola per il 50%. Gli iIleciti registrati quali pesca con reti o metodi irregolari sono prevalentemente attuati da Cinesi”.

In più, come mi raccontava l’amico Umberto Fusini, guardia ecologica e presidente dell’associazione ARTe Centro Anfibi Pianoro, e come ho avuto più volte modo di verificare di persona, la pesca di frodo arriva ad interessare anche posti impensati, piccoli rii e torrentelli scoscesi che solcano il primo Appennino bolognese, dove ancora è possibile trovare il’Austrapotamobius italicus, il protettissimo gambero di fiume italiano.

L’utilizzo del pescato, qualora trattenuto e anche quello ricavato con metodi illegali, appare perlopiù destinato ad un uso diretto all’interno delle “comunità” piuttosto che alla vendita.

La situazione cambia man mano ci si sposta lungo l’asta del Reno verso la foce. Qui individuati alcuni punti strategici per la pesca, ottengo risultati decisamente diversi a giudicare dalle risposte di ristoratori e operatori delle idrovore:  il “fantasma dei bracconieri dell’Est” è ormai parte  del posto. Come mi raccontava il fotografo naturalista Sergio Stignani, già a Campotto la produttività ittica delle casse d’espansione attira all’interno dell’Oasi gestita dalla Bonifica Renana pescatori di frodo che in piena notte entrano abusivamente con i loro  natanti.

E a questo punto forse non sorprende che come biologo interessato alla fauna ittica non mi possa avvicinare ad un canale messo in secca nella bassa indossando un paio di waders senza destare attenzioni o rischiare una denuncia da parte dei residenti troppo abituati a persone che aspettano la messa in secca per ricavare casse di pesce.

Addirittura in determinati casi, ritenuti particolarmente sensibili, le amministrazioni hanno affidato incarichi ad enti di vigilanza privata per la gestione dell’emergenza bracconaggio in zone messe in secca (il caso di Valle Mandriole).

Ma non tutta la pesca di frodo è destinata al mercato alimentare. Di portata decisamente minore ma ugualmente sensibile è la vendita del prodotto ittico, anche regolarmente pescato, ai laghetti da pesca sul territorio o ad allevatori con introiti ben diversi considerando che i pesci selvatici sono più resistenti, combattivi e più difficilmente predabili. Una carpa regina adulta superata una certa stazza inizia a valere più di 50 euro e  il prezzo di un raro persico trota da 3 kg  è dettato solo dall’interesse dell’acquirente.

Ma tornando al siluro, fra leggende e  racconti, quali sono realmente gli effetti e le implicazioni di questo ingombrante “trofeo di pesca”danubiano?

Tanto per cominciare dimentichiamoci i macabri attentati ai danni di esseri umani o di animali di grossa taglia che lo vedono protagonista. Sicuramente un grosso adulto non disdegna prede della dimensione di un’anatra e se percepisce un’invasione del suo territorio o in generale si sente particolarmente infastidito,  potrà mordere. Ma nulla di più e si tratta comunque di casi rari o forzati.

Da un punto di vista strettamente biologico, con la stessa facilità con cui si afferma che un predatore generalista di grosse dimensioni mangia tutto minacciando la biodiversità si può anche affermare che, come insegna l’ecologo R.T. Paine, lo stesso predatore gioca un ruolo decisivo nella definizione degli equilibri riducendo la pressione di specie competitive che altrimenti diventerebbero preponderanti.

Tutto va calibrato in funzione della situazione e degli equilibri trofici che si vengono a creare, ricordando che se è vero che la comparsa dl Silurus glanis nelle acque italiane è relativamente recente (il fenomeno è diventato sensibile a partire dal 1950), gli equilibri naturali degli idrosistemi planiziali sono ormai da secoli compromessi sì dall’introduzione di numerose altre specie invasive, ma in particolare  dalle opere di bonifica.

Un esempio fra tanti: la predilezione di questi grossi pesci per  i gamberi è ormai appurata e il Procambarus clarkii il cosidetto gambero killer (un altro esempio di importazione avventata) diventa facile e abbondante preda per i siluri che, se da un lato se ne servono per aumentare la loro diffusione, dall’altro ne fronteggianp l’invasione che è dannosa non solo per la biodiversità ma anche per gli argini profondamente scavati e potenzialmente indeboliti da questi crostacei.

Allo stesso tempo nelle acque pedecollinari si  osserva l’impatto di questo predatore sulla fauna a ciprinidi reofili e in particolare su prede facili per i giovani, quali il ghiozzo di fiume. Ogni situazione va quindi analizzata nella sua unicità e complessità

Va ricordato che in Emilia-Romagna, per legge, gli “alloctoni” (i pesci non indigeni) non possono essere rilasciati una volta pescati, lasciando al pescatore l’onere dello smaltimento pena una multa.

Istituzioni scientifiche e realtà private trovano campo libero nella lotta agli alloctoni, con azioni di contenimento richieste o comunque approvate dagli enti pubblici nell’ambito della programmazione degli interventi per la gestione della biodiversità. Un ambito di lavoro complesso dove a volte l’accademismo e la ricerca possono mascherare  la reale incisività degli interventi.

Allo stesso tempo si assiste a semine, essenzialmente di pronta pesca a basso costo, principalmente  Abramidi e Carassi, specie alloctone, nei tratti di canale a destinazione di ”campo gara” in piena contraddizione con i principi di gestione biologica compatibile che come detto sopra sostanzialmente autorizzavano la soppressione degli animali non autoctoni.

Una situazione complessa dove interessi sociali  e politici diversi si scontrano, fra amministrazioni, associazioni sportive, istituzioni scientifiche e ambientaliste. E non ultimi coloro che sul fiume abitano.

In questo panorama piuttosto vario risaltano anche fenomeni relativamente recenti: entrano in gioco realtà associative sportive, ma non solo, che vedono il fiume nel suo complesso come patrimonio da salvaguardare proponendo una linea di condotta per il pescatore sportivo mirata all’educazione ambientale  incentrata sul “catch and release” indiscriminato non solo come garanzia di non sfruttamento delle risorse comuni, ma come rispetto per la vita in quanto tale.

Fra questi spicca il Movimento Gruppo Siluro Italia che, forte di principi ambientalisti e con uno statuto chiaro e dettagliato, denuncia l’arcaicità delle leggi a fronte di un riconoscimento oggettivo dell’impossibilità di recuperare da un punto di vista faunistico le acque emiliane e propone, quindi,  un adeguamento allo stato attuale a partire da uno stile di vita diverso per gli amanti della pesca  e non solo.

La pesca di frodo acquisisce quindi un carattere ben più forte di aggressione all’ambiente e razzia sconsiderata. E mentre su internet una nota marca di elettrostorditori a basso costo (e facilmente occultabili) pubblicizza con immagini esplicite l’efficacia del suo prodotto, sui social network e sui blog infuria da parte di alcuni l’odio ormai palesemente razziale per i “saccheggiatori dell’Est”.

Un quadro complessivo ancora più ingarbugliato dalla decisione di contrastare i fenomeni illegali dando libero e legale accesso alla risorsa ittica per mezzo di permessi di pesca professionale (ad esempio il caso dei nuovi permessi rilasciati a Rovigo).

Rinunciando per un attimo all’oggettività imposta dal mio lavoro, personalmente non posso che condividere il rispetto per l’ambiente, per la vita e, in fondo, per il fascino del mutamento. Ma allo stesso tempo in una società come la nostra non riesco a condannare chi sceglie la vita del fiume e fa della pesca, nell’ambito della legalità e completa sostenibilità ecologica, un primitivo e naturale strumento di sussistenza.

E infine non posso che constatare che per chi vive o frequenta le sponde dei fiumi padani il siluro sembra essere diventato ormai quasi più il simbolo di un fenomeno sociale piuttosto che biologico: una parte dei molteplici e controversi aspetti della vita sul fiume.