
Il rincaro ormai stratosferico dell’energia fa tremare i consorzi che si occupano di irrigazione e di bonifiche. A loro – alle loro pompe elettriche – non si deve solo l’arrivo nei canali dell’acqua per irrigare i campi. Senza le idrovore dei consorzi, elettriche anch’esse, diventerebbe acquitrino un terzo della Pianura Padana: la parte situata al di sotto del livello del mare. Comprende fra l’altro il Polesine, la costiera romagnola e città come Trieste, Ravenna, Mantova, Padova.
Nell’ultimo anno, l’energia elettrica è rincarata del 130%. Non si vede la fine della corsa all’insù. Ormai, prima di aprire le bollette, è saggio recarsi vicino all’ingresso di un pronto soccorso. Ma le bollette di una famiglia formata da tre persone riguardano consumi pari, in media, a 2.700 kWh all’anno. I consumi dei 149 consorzi italiani di irrigazione e bonifica ammontano complessivamente a circa 560 milioni di kWh all’anno, salute!
Come dice il comunicato stampa dell’ANBI (Associazione Nazionale Bonifiche Irrigazioni), i consorzi sono dotati di impianti idroelettrici e fotovoltaici grazie ai quali producono più energia elettrica di quella che consumano. Ma l’attuale normativa impedisce di utilizzare direttamente l’energia autoprodotta. Bisogna venderla ad un gestore e riacquistarla a prezzo maggiorato.
La spesa non si riduce a bruscolini. Ad esempio, il bilancio consolidato 2020 del consorzio di Ferrara (per il consolidato 2021 è ancora troppo presto) registra con soddisfazione, a pag. 42, una spesa per l’energia elettrica inferiore ai 720 mila euro inseriti nel bilancio di previsione. L’esborso è stato più contenuto perché è piovuto poco, constata il documento. Anche quest’anno, almeno per i primi due mesi, la pioggia è scarsa. Però preoccupa il rincaro: e un rincaro (finora) del 130% proiettato su cifre alte come quelle delle bollette consortili...
“Ciascuno dei 149 consorzi italiani ha un suo contratto per l’energia elettrica. Non abbiamo un calcolo della spesa complessiva”, spiega Fabrizio Stelluto, responsabile della comunicazione per l’ANBI. Però le sue cifre inquadrano bene le difficoltà dei consorzi: soprattutto di quelli che, per così dire, fanno un importantissimo doppio lavoro. Non si limitano cioè ad azionare le pompe in caso di siccità per portare acqua dentro i canali di irrigazione: quando piove, accendono le idrovore per mantenere asciutte le ampie porzioni dell’Italia che altrimenti diventerebbero un pantano. Sono come catini il cui fondo è situato più in basso rispetto al livello del mare; se nessuno la portasse via, l’acqua piovana si accumulerebbe e dunque la gestione del regime idrico va a beneficio di tutta la collettività: non solo dei contadini.
Sui quasi 7 milioni di ettari gestiti dai consorzi, 1,2 milioni sono sotto il livello del mare. Le idrovore che li mantengono all’asciutto sono poco meno di 800. Di esse, ben 563 sono nell’Italia settentrionale: 300 nel solo Veneto, altre 175 in Emilia Romagna.